La tratta degli schiavi
«È singolare che gli stessi individui che parlano con stile raffinato di libertà politica... non abbiano scrupolo di ridurre una grande proporzione delle creature a loro simili in condizioni tali da essere private non solo della proprietà, ma anche di quasi tutti i diritti».
John Millar, filosofo scozzese |
Sommario
- La schiavitù nel mondo antico: Egitto e Grecia
- Gli schiavi nell'antica Roma
- L'Impero Ottomano
- La tratta degli schiavi africani
- L'abolizionismo nel XIX sec.
- La battaglia per i diritti civili negli USA
- Gli Afro-americani oggi
- Lo schiavismo nel mondo attuale
1. La schiavitù nel mondo antico: Egitto e Grecia
La schiavitù è sempre esistita nel mondo antico, anche se non ha sempre avuto lo stesso peso e la stessa importanza ovunque: vi sono state civiltà in cui l'intera economia si basava principalmente sulla manodopera schiavile (soprattutto l'antica Roma), mentre in altri casi il numero degli schiavi non fu mai molto elevato e la loro rilevanza nelle attività produttive era pressoché trascurabile. È questo sicuramente il caso dell'antico Egitto, dove contrariamente all'opinione comune gli schiavi non erano molti ed erano perlopiù prigionieri di guerra o contadini che si erano indebitati, diventando proprietà dei loro creditori che li sfruttavano come manodopera (qualcosa di simile avveniva anche nelle civiltà della Mesopotamia, come il codice di Hammurabi attesta per Babilonia nel XVIII sec. a.C.). In Egitto la costruzione delle grandi piramidi e di altre importanti opere pubbliche era affidata a lavoratori coatti e costretti a prestazioni di manodopera gratuita, come contadini poveri o operai, ma che non per questo perdevano la loro condizione di uomini liberi: l'immagine letteraria e cinematografica di migliaia di schiavi obbligati alla costruzione dei monumenti è perciò falsa, in quanto non corrisponde alla realtà storica quale emerge dai documenti in nostro possesso. È quasi certo, tra l'altro, che gli Ebrei presenti in Egitto dal 1800 a.C. siano stati costretti proprio a compiere lavori coatti di questo tipo, fatto che li spinse a lasciare il Paese in seguito all'Esodo (»» STORIA DEL POPOLO EBRAICO).
Discorso analogo vale anche per la Grecia del periodo arcaico e classico, in cui gli schiavi non erano molto numerosi ed erano principalmente cittadini che perdevano la libertà per debiti, diventando proprietà dei loro creditori per i quali dovevano lavorare gratuitamente. Il fenomeno iniziò a diffondersi specialmente nel VI sec. a.C., quando la mancanza di terre causò l'impoverimento di molti piccoli proprietari che erano costretti a indebitarsi e, di conseguenza, diventavano schiavi per non essere in grado di ripagare il debito. È questo il motivo che spinse il riformatore ateniese Solone (594 a.C.) a promuovere la cancellazione della schiavitù per debiti, la cosiddetta seisàchteia ("scuotimento dei pesi"), il che dimostra che la questione iniziava a diventare di notevole importanza nella società delle poleis greche arcaiche (la grande colonizzazione dell'VIII-VI sec. era stata un tentativo per risolvere il problema della mancanza di terre, anche se in pochi decenni la situazione era tornata critica).
Accanto ai Greci che diventavano schiavi per debiti vi erano anche gli stranieri acquistati sul mercato di alcune città come Corinto ed Egina, provenienti da regioni considerate culturalmente arretrate (Siria, Tracia, Scizia): si trattava di individui giudicati inferiori anche sul piano etnico e perciò destinati a mansioni umili, cioè a lavorare nelle campagne o nelle miniere, dove erano trattati molto duramente, o nelle case private degli aristocratici, dove il trattamento era più umano. Il mercato degli schiavi iniziò a diventare assai fiorente soprattutto nel VII-VI sec. e il prezzo poteva andare dalle 50 dramme per gli schiavi più "scadenti", fino a 500-600 per gli operai robusti e a più di 1.000 per i lavoratori specializzati (come architetti o ingegneri). Non di rado lo schiavo poteva affrancarsi, cioè riguadagnare la libertà con il pagamento di un riscatto, oppure per l'atto di "manomissione" del padrone, come accadeva solitamente anche a Roma.
Tavoletta corinzia del VI sec. a.C., che raffigura schiavi al lavoro in una cava d'argilla. Il lavoro nelle miniere era particolamente duro e gli schiavi vi morivano con estrema facilità, situazione che si verificava spesso anche nel mondo romano. È interessante osservare come molti Greci, una volta che la regione venne sottomessa dai Romani, divennero a loro volta schiavi come prigionieri di guerra e furono impiegati nelle stesse mansioni dai loro nuovi padroni. |
Un caso particolare era infine rappresentato dagli Iloti, gli schiavi di Sparta che erano discendenti degli antichi abitanti della Laconia e della Messenia sottomessi dai Dori: erano considerati inferiori sul piano etnico e destinati soprattutto al lavoro della terra, mentre gli Spartiati (ovvero i guerrieri spartani liberi) si dedicavano esclusivamente alla guerra e all'attività militare. Gli Iloti erano coscienti di appartenere a uno stesso popolo e spesso si ribellavano ai loro padroni, forti del loro numero che in genere era superiore a quello degli Spartiati: anche per questo i guerrieri di Sparta praticavano nei loro confronti la krypteia, una sorta di caccia all'uomo in cui i giovani Spartiati uccidevano un gran numero di Iloti sia come forma di addestramento militare, sia per tenere sotto controllo il numero degli schiavi ed evitare che aumentasse in modo indiscriminato. Ciò non impedì agli Iloti di ribellarsi più volte nei loro confronti, come avvenne durante la II Guerra Messenica (VII sec. a.C.) in cui vennero sopraffatti a fatica, o come quando approfittarono del terremoto che colpì Sparta nel 464 a.C. per una nuova rivolta (la III Guerra Messenica), rifugiandosi sul monte Itome e costringendo gli Spartiati a chiedere l'intervento di Atene per averne ragione (i soldati ateniesi parteggiarono per gli schiavi ribelli e ciò causò la rovina politica e l'ostracismo di Cimone, nel 461).
2. Gli schiavi nell'antica Roma
A Roma la schiavitù aveva caratteristiche molto simili al mondo greco, anche se un'importante differenza stava nel numero degli schiavi (che dopo le grandi conquiste del III-II sec. a.C. aumentò in modo considerevole) e nel loro status giuridico, dal momento che nel mondo romano lo schiavo era considerato uno "strumento parlante" ed era equiparato perciò a una bestia da soma, privo di personalità giuridica e del riconoscimento di qualsiasi diritto. Gli schiavi a Roma facevano parte della familia ed erano sottoposti all'autorità del paterfamilias, che aveva diritto di vita e di morte su di loro così come sugli altri membri consanguinei ed esercitava perciò un potere assoluto e discrezionale. Lo schiavo poteva essere mutilato o ucciso e veniva comprato e venduto come una qualunque altra merce, essendo perlopiù ultilizzato come manodopera gratuita nelle campagne o nelle miniere (dove la condizione schiavile era drammatica), oppure nelle case dei ricchi proprietari terrieri in cui gli schiavi erano trattati in modo più umano, come già nel mondo greco.
Schiavi romani incatenati per il collo, ritratti in un bassorilevo risalente al 200 a.C. circa (conservato all'Ashmolean Museum di Oxford) La condizione degli schiavi era terribile tanto nelle miniere quanto nei latifondi dei ricchi proprietari terrieri, dove venivano utilizzati come braccianti sostituendo quasi totalmente la manodopera salariata: i più pericolosi erano rinchiusi negli ergastula, celle sotterranee dove erano appunto incatenati l'uno all'altro e in cui spesso morivano per le drammatiche condizioni cui erano costretti. |
Fu soprattutto a partire dal III-II sec. a.C. che a Roma iniziò ad affluire un numero enorme di schiavi, come prigionieri di guerra frutto delle conquiste territoriali effettuate in Nordafrica, Asia Minore e Medio Oriente: il dominio romano si stava trasformando in un Impero e gli schiavi venivano utilizzati come manodopera a basso costo soprattutto nelle campagne, negli immensi latifondi dei ricchi proprietari terrieri che li sfruttavano al posto di contadini liberi e salariati (si può affermare che l'economia romana poggiava su base schiavile, fatto che provocò non poche tensioni sociali nella tarda Repubblica). Non abbiamo ovviamente dati certi, ma si calcola che gli schiavi presenti in territorio romano alla fine del I sec. a.C. fossero centinaia di migliaia e che sull'isola di Delo, dove aveva sede il più fiorente mercato per la compravendita di schiavi, ne fossero venduti addirittura 10.000 al giorno. La provenienza geografica degli schiavi era la più varia e da essa dipendeva spesso anche la "specializzazione" delle mansioni cui erano destinati: i Greci erano in genere persone colte e di buoni costumi, quindi erano sovente parte della familia domestica (noi diremmo la servitù della casa aristocratica), quando non diventavano grammatici e pedagoghi assegnati all'istruzione dei giovani figli dei padroni; gli schiavi Traci e provenienti dall'Africa erano più robusti ed erano spesso destinati al lavoro in miniera, nelle campagne o a diventare gladiatori, attività quest'ultima destinata a riscuotere grandissimo successo in età imperiale. In ogni caso è innegabile che la tratta degli schiavi assunse a Roma proporzioni notevolissime fino al II sec. d.C., tanto che si può parlare a buon diritto di una gigantesca deportazione di massa (la prima, forse, del mondo antico per numero di persone coinvolte e varietà di provenienza etnica).
Mosaico che raffigura gladiatori in addestramento (Villa Borghese, Roma) I gladiatori erano figure molto popolari nel mondo romano e potevano guadagnare molto denaro, conquistando in molti casi la libertà; ovviamente non erano pochi quelli che morivano nell'arena, a causa delle ferite riportate. Famosa era la scuola per gladiatori di Capua, da dove proveniva Spartaco, lo schiavo trace protagonista della grande rivolta schiavile del 73-71 a.C. duramente repressa dal governo romano (lo stesso Spartaco venne ucciso e quasi tutti gli schiavi ribelli vennero crocifissi lungo la Via Appia).
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Come già nel mondo greco, anche a Roma non era raro per uno schiavo riguadagnare la libertà grazie all'atto della manomissione da parte del padrone: naturalmente questo destino non toccava a tutti, ma era riservato specialmente agli schiavi della familia domestica che erano a più stretto contatto col paterfamilias e che già normalmente godevano di un trattamento migliore. Lo schiavo liberato veniva detto liberto e godeva di minori diritti rispetto all'uomo nato libero (ingenuus nel diritto romano), tuttavia poteva quasi sempre contare su un proprio peculium, ovvero una certa somma di denaro che aveva accumulato durante la sua vita e che gli permetteva poi di avviare una sua attività economica una volta guadagnata la libertà. Poiché gli schiavi di origine greca godevano di molti privilegi ed erano spesso usati come pedagoghi e maestri, molti di loro venivano manomessi e nel I sec. d.C. il numero di liberti greci crebbe notevolmente, mentre alcuni di loro diventavano molto ricchi e accedevano a cariche pubbliche di un certo rilievo: è noto che l'imperatore Claudio (41-54 d.C.) si circondò di molti liberti greci cui assegnava importanti funzioni di segreteria, mentre nel Satyricon di Petronio (I sec. d.C.?) compare la figura del liberto Trimalchione, protagonista di una cena in cui fa sfoggio ed esibizione grossolana della propria ricchezza. Anche per questo motivo gli schiavi e i liberti greci non erano ben visti a Roma ed erano spesso oggetto di un vero e proprio "odio etnico", sia perché sottraevano opportunità di lavoro ai cittadini romani, sia perché accusati (quasi sempre a torto) di vari vizi e mancanze e perciò fatti bersaglio di motti, facezie, quando non di feroci discriminazioni. Già i poeti comici latini del III-II sec. a.C. se la prendevano con il graeculus, lo schiavo greco che con la sua vuota cultura guadagnava più dei salariati romani, mentre i satirici del I-II sec. d.C. accusavano i Greci di praticare l'omosessualità e di essere dei degenerati (la cosa è evidente soprattutto in Giovenale).
Busto che ritrae il filosofo stoico e scrittore latino Lucio Anneo Seneca, vissuto a Roma nel I sec. d.C. Lo Stoicismo era una scuola filosofica che proclamava la philantropia, la necessità di amare l'intero genere umano, il che spingeva i suoi adepti non tanto a mettere in discussione l'istituto giuridico della schiavitù, quanto a favorire un comportamento più umano nei confronti degli schiavi, considerati esseri umani come tutti gli altri. Tale posizione è espressa da Seneca nella XLVII delle Epistulae morales ad Lucilium, in cui elogia l'amico-discepolo perché tratta con umanità i suoi schiavi e condanna quei padroni che infliggono ai loro servi crudeli punizioni, quando non li sfruttano sessualmente per i loro piaceri abietti. Il filosofo rimarca il fatto che anche un cittadino romano potrebbe perdere la propria libertà a causa di un rovescio militare, quindi esorta ciascuno a trattare i propri schiavi così come vorrebbe essere trattato dal proprio padrone, con una visione non molto distante da quella espressa in quel periodo dal Cristianesimo. |
Nella prima età imperiale la diffusione dello Stoicismo e dei precetti cristiani contribuì a sensibilizzare l'opinione dell'alta società romana sul problema degli schiavi, che dovevano essere considerati alla stregua di tutti gli altri esseri umani e quindi essere trattati in modo giusto (la schiavitù non veniva comunque messa in discussione nei suoi presupposti sociali ed economici). Dopo il II sec. d.C. la spinta alle conquiste territoriali cominciò a esaurirsi e di conseguenza diminuì drasticamente l'afflusso di prigionieri di guerra dalle province, il che portò a un calo sensibile del numero della manodopera schiavile nei secc. seguenti; molti schiavi inoltre venivano affrancati, mentre Roma si trovava a fronteggiare la minaccia incombente dei popoli germanici, verso i quali si concentravano tutte le tensioni etniche e militari (»» BARBARI E ROMANI). La schiavitù naturalmente sopravvisse, ma ebbe un peso sempre meno importante nella società romana in Occidente, specie dopo la caduta dell'Impero e la formazione dei regni romano-barbarici, mentre conservò una certa rilevanza in Oriente dove gli schiavi venivano impiegati ancora come servi domestici e nelle campagne, sia pure in numero inferiore rispetto al passato. Anche qui, tuttavia, gli schiavi rustici ebbero maggiori diritti e ottennero la possibilità di gestire in modo autonomo dei piccoli poderi, finendo per confondersi coi contadini liberi obbligati alle prestazioni di lavoro gratuito nelle terre del signore, i cosiddetti servi della gleba che caratterizzarono l'Alto Medioevo. È però chiaro che l'istituto della servitù medievale aveva caratteri diversi rispetto alla manodopera schiavile del mondo antico e si configurava soprattutto come condizione giuridica e lavorativa, non avendo più alcun aspetto etnico legato alla deportazione di persone da altri Paesi o alla loro condizione di "inferiori" destinati a lavori umili, come era stato quasi sempre in passato.
3. L'Impero Ottomano
Nel Medioevo la schiavitù gradualmente scomparve nell'Europa cristiana, anche per la condanna morale espressa dalla Chiesa contro questa pratica, mentre il commercio e il traffico di esseri umani continuò a prosperare in Oriente e soprattutto nel mondo islamico, che a partire dal VII sec. iniziò a espandersi militarmente verso il Mediterraneo: già nel IX-X sec. i pirati saraceni che saccheggiavano le coste degli Stati cristiani catturavano prigionieri che venivano venduti come schiavi in Africa attraverso la Spagna dominata dagli Arabi, senza contare che molti schiavi neri provenienti dall'Africa sub-sahariana venivano deportati in Medio Oriente e destinati a varie mansioni e lavori umili. A partire dal XVI sec. tale pratica venne ripresa dai Turchi dell'Impero Ottomano che si stavano espandendo in modo minaccioso nel Mediterraneo e nei Balcani, le cui navi da guerra partivano dai porti di Algeria, Tunisia, Egitto per attaccare le coste degli Stati europei e assaltare gli stessi vascelli cristiani, facendo così bottino e catturando prigionieri che venivano deportati come schiavi in Nordafrica. Il destino di questi schiavi era quanto mai vario, poiché i più ricchi e nobili venivano talvolta liberati in cambio di un ingente riscatto, mentre gli uomini di umili condizioni (ma dal fisico possente e robusto) venivano venduti come operai e contadini, diventando manodopera a basso costo come accadeva secoli prima ai prigionieri di guerra dell'Impero Romano, oppure finivano come rematori sulle navi da guerra turche (le famigerate galere). Il mercato di schiavi più fiorente del Mediterraneo era situato a Candia, sull'isola di Creta, dove ne venivano venduti centinaia ogni giorno e dove erano attivi anche trafficanti cristiani, provenienti da Malta o da altri Stati europei; talvolta le schiave cristiane di particolare nobiltà e bellezza venivano destinate agli harem del sultano turco o di altri dignitari ottomani, anche se l'importanza della cosiddetta "tratta delle bianche" non va esagerata e il traffico degli schiavi riguardava soprattutto uomini in giovane età.
Il commercio degli schiavi nel mondo ottomano subì una battuta d'arresto dopo la battaglia di Lepanto del 1571, quando la flotta turca subì una pesante sconfitta ad opera di quella veneziana e di altri Stati cristiani, ma in ogni caso proseguì tra alti e bassi sino al XVIII sec. e si concentrò principalmente sul traffico di schiavi neri provenienti dall'Africa, interessando solo occasionalmente i prigionieri cristiani catturati nelle scorrerie nel Mediterraneo. Oltre al traffico di schiavi veri e propri, nell'Impero Ottomano era in uso anche la pratica del devshirme, ovvero il reclutamento forzato di giovani maschi cristiani da destinare al corpo di giannizzeri, il corpo di soldati scelti che costituiva la guardia personale del sultano: istituito dal sultano Murad I nel XIV sec., il devshirme (in turco "raccolta") veniva praticato nelle terre cristiane sottomesse dai Turchi, soprattutto nei Balcani (Albania, Grecia, Ungheria, Bulgaria) ed era considerato una forma di tassazione, detto anche "tassa del sangue" dalle popolazioni cristiane. I Turchi sottraevano in modo forzato giovani cristiani o non musulmani di età non superiore a 10-12 anni e li destinavano a diventare giannizzeri, sottoponendoli a un duro addestramento militare e incoraggiandoli fortemente a convertirsi all'Islam; tale pratica era tristemente nota nelle regioni sottoposte al dominio turco ed era molto temuta dai popoli cristiani, tanto che non di rado i bambini venivano fatti nascondere sulle montagne all'approssimarsi del periodo della "raccolta". I giannizzeri ricevevano un'istruzione compiuta e alcuni di loro potevano entrare nella burocrazia dell'Impero, aspirando anche a ricoprire cariche di grande importanza come quella di Visir, il potente primo ministro e comandante militare dell'Impero Ottomano. La pratica del devshirme perse gradualmente importanza dopo il XVI sec. e venne formalmente abolita nel XVII sec., mentre il corpo dei giannizzeri acquisiva grande peso militare e diventava una seria minaccia per la figura del sovrano: il sultano Mahmud II sciolse il corpo e sterminò i giannizzeri ribelli nel 1826.
Stampa turca del XVI sec., che raffigura un gruppo di bambini cristiani (in basso, con l'uniforme rossa) sottratti alle loro famiglie in seguito al devshirme e destinati a diventare giannizzeri. I bambini sono sorvegliati da una guardia in uniforme azzurra, mentre alle loro spalle si vedono madri e genitori che tendono le braccia verso i figli da cui dovranno separarsi. Una donna, in particolare, sembra supplicare un giannizzero che indossa la tipica uniforme di questi soldati, quasi certamente anch'egli un bambino un tempo sottratto alla ppropria famiglia . Il devshirme era molto diffuso nella Penisola Balcanica (specie in Grecia, Ungheria, Albania), mentre in seguito venne praticato anche in Europa Orientale, ad es. in Ucraina. Non sempre era avversato dalle popolazioni cristiane, poiché alcuni ritenevano un onore per il proprio figlio diventare membro della guardia scelta del sultano, mentre alcuni popoli negoziavano il pagamento di questa "tassa" in cambio di sgravi e agevolazioni di altra natura. Il devshirme venne formalmente abolito nel XVII sec. |
4. La tratta degli schiavi africani
L'Africa sub-sahariana era interessata al traffico degli schiavi neri già nell'antichità, poiché esisteva un fiorente commercio di esseri umani che venivano prelevati dalle regioni del Corno d'Africa e dall'isola di Zanzibar per essere deportati verso la Penisola Arabica già in epoca pre-islamica, anche se il traffico crebbe d'intensità al tempo del califfato Omayyade e Abbaside (del resto, come si è detto, la schiavitù è stata sempre presente nel mondo islamico e ha caratterizzato in seguito soprattutto l'Impero Ottomano). Tuttavia fu solo dopo le grandi scoperte geografiche del XV-XVI sec. che l'Africa equatoriale divenne un vero e proprio "serbatoio" di schiavi diretti verso le colonie europee del Nuovo Mondo, dove era richiesta manodopera da sfruttare nelle miniere di oro e argento, nonché nelle estese piantagioni di cotone, tabacco, canna da zucchero e caffè: i popoli indigeni del continente americano (i cosiddetti Amerindi o Indios, come li definivano gli Spagnoli) non erano molto adatti al lavoro a causa della debolezza fisica, quindi iniziò a prosperare un massiccio traffico di schiavi africani che venivano prelevati soprattutto dalle coste atlantiche dell'Africa e deportati sulle navi negriere verso le Americhe, per essere poi venduti ai latifondisti e proprietari terrieri delle encomiendas, le organizzazioni create dai colonizzatori europei per la cristianizzazione del Nuovo Mondo. Il traffico iniziò dai primi anni del '500 e si intensificò soprattutto tra XVI-XVII sec., quando le corone di Spagna e Portogallo ne affidarono il monopolio a mercanti portoghesi che proseguirono la loro attività sino al XVIII sec. (in seguito subentrarono anche trafficanti francesi e inglesi, che convogliarono molti schiavi verso le colonie nordamericane).
Il traffico assunse proporzioni enormi soprattutto nel XVIII sec. e interessò moltissimi schiavi deportati, tanto che il loro numero nelle Americhe alla fine del '700 raggiunse forse i 3 MLN di individui (senza contare naturalmente quelli che morivano per le drammatiche condizioni del trasporto in mare o per i maltrattamenti subiti nelle piantagioni in cui erano costretti a lavorare in condizioni disumane). Gli schiavi africani non erano considerati come persone e non avevano alcun diritto giuridico, esattamente come avveniva secoli prima per gli schiavi dell'Impero Romano, e anzi molti pensatori cristiani li giudicano esseri sub-umani, non dotati di anima e destinati a servire l'uomo civilizzato europeo, riproponendo argomenti che erano già stati usati per giustificare lo sfruttamento e lo sterminio degli Indios. Fu solo con l'Illuminismo e col progredire degli ideali di fratellanza e solidarietà umana che lo schiavismo cominciò ad essere messo seriamente in discussione, dapprima nelle società europee (dove iniziò a diffondersi il movimento dell'abolizionismo, specialmente in Inghilterra) e poi anche oltreoceano, il che portò a una progressiva diminuzione della tratta marittima degli schiavi e alla sua definitiva scomparsa nella prima metà del XIX sec., specie per la minore importanza del latifondo in cui la manodopera schiavile era impiegata. Lo schiavismo in ogni caso sopravvisse a lungo in molte zone delle Americhe e solo alla fine del secolo esso fu formalmente abolito, in seguito a un processo storico contraddittorio e non privo di risvolti sanguinosi, come ad esempio negli USA.
Negrieri olandesi che trasportano schiavi africani dall'interno verso la costa, in una stampa del XIX sec. Gli schiavi venivano catturati dai trafficanti in seguito a vere e proprie battute di caccia, legati e gettati in catene nelle stive delle cosiddette navi "negriere", con cui venivano deportati nelle Americhe e destinati al lavoro nelle piantagioni. Le condizioni del viaggio erano terribili e molti prigionieri morivano durante la traversata, anche per i duri maltrattamenti subiti da parte dei negrieri che, ovviamente, erano individui senza scrupoli.
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5. L'abolizionismo nel XIX sec.
Come detto, il movimento che proponeva l'abolizione della schiavitù iniziò a diffondersi in Europa a partire dalla fine del XVIII sec. con il progredire delle idee illuministe che concepivano gli schiavi come esseri umani con pieni diritti, il che diede vita a una massiccia propaganda abolizionista soprattutto in Inghilterra, dove nel 1807 venne emanata una legge che proibiva la tratta marittima degli schiavi. L'esempio inglese venne presto imitato da altri Stati, a cominciare dagli USA dove il traffico degli schiavi venne abolito nel 1807 (anche se lo schiavismo perdurava negli Stati del Sud per ragioni sociali ed economiche), mentre la Francia proibì la tratta dei neri nel 1815 e la schiavitù venne in seguito abolita in tutti gli Stati dell'America Meridionale al momento dell'indipendenza, con l'eccezione del Brasile in cui la manodopera schiavile veniva mantenuta nelle piantagioni di caffè (il Brasile abolì formalmente la schiavitù solo nel 1886). Negli USA tra la fine del XVIII e l'inizio del XIX sec. lo schiavismo venne abolito per legge in tutti gli Stati a nord del Maryland, ma esso rimase profondamente radicato negli Stati del Sud dove gli schiavi erano impiegati soprattutto nelle piantagioni di cotone, prodotto fortemente richiesto dalle industrie tessili inglesi: la proibizione della tratta dopo il 1807 non frenò il commercio degli schiavi e il loro numero crebbe in modo notevole nella prima metà del XIX sec., specie in Stati come Louisiana, Georgia, Virginia, Texas e South Carolina, passando da 2 MLN nel 1830 a quasi 4 MLN nel 1860. Ecco una mappa della loro distribuzione negli Stati dell'Unione alla vigilia della Guerra di Secessione:
Il dibattito abolizionista animò anche la società americana e diventava sempre più evidente il contrasto tra gli Stati del Nord, più industrializzati e aperti a una società evoluta di tipo europeo, e quelli del Sud, ancora legati a un'economia fondiaria e con una cultura più tradizionale e arretrata. Fu anche questo uno dei fattori che scatenarono la Guerra di Secessione tra 1861 e 1865, dalla quale il Sud uscì sconfitto e che portò alla formale abolizione della schiavitù in tutti gli Stati Uniti, dapprima con il Proclama di Emancipazione da parte del presidente Lincoln nel 1863 e in seguito con l'emanazione del 13° emendamento alla Costituzione: lo schiavismo venne di fatto eliminato a partire dal 1865, ma questo non migliorò molto la condizione degli ex-schiavi né favorì un loro immediato inserimento nella società americana, specie negli Stati del Sud dove erano odiati dalla popolazione che imputava loro i guasti e i lutti della guerra (Nord e Sud continuavano a restare divisi, fatto di cui l'assassinio di Lincoln nel 1865 fu drammatica testimonianza). Negli Stati ex-confederati i neri continuavano ad essere oggetto di discriminazioni e di veri e propri attacchi terroristici, specie ad opera dei fanatici razzisti del Ku-Klux-Klan, mentre gli ex-schiavi venivano di fatto esclusi dai diritti civili e politici, nonostante nel 1870 fosse stato approvato il 15° emendamento alla Costituzione che vietava le limitazioni di voto per questioni legate alla razza. Una delle conseguenze fu la massiccia emigrazione di neri dagli Stati del Sud verso le ricche città industriali del Nord, dove la manodopera nelle fabbriche era molto richiesta e dove si formarono ben presto dei veri e propri quartieri-ghetto destinati a ospitare gli Afro-americani, oggetto di una discriminazione meno violenta rispetto agli Stati meridionali ma altrettanto efficace nell'escluderli dalla piena partecipazione sociale.
Abraham Lincoln (1809-1865), il 16° presidente degli USA che guidò il Paese nella drammatica crisi della Guerra di Secessione e si batté con dedizione per l'abolizione della schiavitù, da lui sempre aborrita. Avvocato autodidatta e vicino al movimento abolizionista, la sua elezione alla presidenza nel nov. 1860 scatenò la reazione degli Stati del Sud, dando inizio al sanguinoso conflitto che vide la completa vittoria dell'Unione (1861-1865). Il 1° gennaio 1863 Lincoln emanò il Proclama di Emancipazione con cui venivano liberati tutti gli schiavi ancora presenti negli Stati ribelli, mentre nel 1865 ottenne l'approvazione del 13° emendamento alla Costituzione americana che aboliva formalmente la schavitù in tutto il territorio dell'Unione. Il 14 apr. 1865 venne assassinato da G. W. Booth, un fanatico sostenitore della secessione, mentre si trovava nel palco di un teatro di Washington. |
6. La battaglia per i diritti civili negli USA
L'abolizione della schiavitù fu solo il primo passo verso la piena integrazione della popolazione afro-americana nella società degli USA, dove i neri continuavano ad essere discriminati e oggetto in molti casi di una vera e propria segregazione razziale nonostante le molte leggi emanate a loro favore: nel 1954 la Corte Suprema si pronunciò contro la cosiddetta "segragazione scolastica" e garantì agli Afro-americani il diritto di frequentare le stesse scuole dei bianchi, ma questo non pose fine alle discriminazioni e non emancipò i neri d'America da una condizione socialmente e culturalmente inferiore, specie negli Stati del Sud dove l'opinione pubblica dei bianchi era loro ostile. Il movimento per l'estensione dei diritti civili agli Afro-americani trovò un importante leader in Martin Luther King, il pastore protestante e apostolo della "non-violenza" attorno a cui si coagulò la lotta per le minoranze in tutti gli Stati Uniti: il suo impegno e quello del presidente J. F. Kennedy (assassinato nel nov. 1963) portarono all'emanazione nel 1964 di un'importante legge sui diritti civili, il Civil Rights Act che di fatto proibiva ogni discriminazione di natura etnica nella politica scolastica, negli alloggi, nel lavoro e nell'esercizio del diritto di voto, anche se la concreta applicazione fu problematica e ostacolata in molti casi dalle stesse autorità federali. Il diritto di voto per gli Afro-americani veniva poi garantito solo teoricamente, poiché i neri per votare dovevano dimostrare di saper leggere e scrivere e ciò limitava in moltissimi casi l'effettivo godimento di tale diritto (i neri continuavano ad essere relegati in una posizione di marginalità nella società americana e le loro condizioni di vita nei "ghetti" di alcuni importanti centri diventavano sempre più insostenibili). L'assassinio di M. L. King a Memphis nel 1968 ad opera di un fanatico razzista scatenò un'ondata di proteste e rivolte in molte città degli USA, che furono represse in modo sanguinoso dalle forze di Polizia.
Martin Luther King (1929-1968), l'ecclesiastico battista che negli anni Cinquanta e Sessanta del XX sec. si pose alla testa del movimento per i diritti civili negli USA e si batté secondo i più rigidi principi della non-violenza. Più volte incarcerato per le sue proteste e fatto oggetto di più di un attentato alla sua vita (nel 1966, durante una marcia, venne ferito da un estremista bianco), vinse la sua battaglia con l'approvazione nel 1964 da parte del Congresso americano del Civil Rights Act, la legge che garantiva la piena uguaglianza tra cittadini bianchi e neri e proibiva le discriminazioni di natura razziale che ancora sopravvivevano in molti Stati dell'Unione. Insignito del Premio Nobel per la Pace nel 1964, venne ucciso a Memphis il 4 apr. 1968 da un attivista bianco. L'impressione destata dalla sua uccisione fu enorme in tutto il Paese e scatenò un'ondata di rivolte da parte degli Afro-americani in molte città statunitensi. |
Alla fine degli anni Sessanta le proteste dei cittadini afro-americani si fecero più radicali e sfociarono in sommosse e rivolte armate, che allarmarono non poco l'opinione pubblica degli USA e rallentarono fortemente la piena integrazione sociale delle minoranze: dopo il 1965 la dottrina della non-violenza espressa da M. L. King venne sostituita da quella ben più estremista di Malcolm X e altri leader neri, dando vita al concetto politico di black power ("potere nero") che teorizzava non solo il recupero dell'identità linguistico-culturale dei neri americani, ma anche la costituzione di centri economici e politici autonomi rispetto all'establishment della società statunitense. All'inizio degli anni Settanta si formò il movimento politico estremista delle Pantere Nere, che si richiamava al marxismo e si batteva per la piena uguaglianza sociale ed economica degli Afro-americani, da ottenersi anche con mezzi violenti (il loro modello ispiratore era la predicazione di Malcolm X, talvolta in relazione alla diffusione dell'Islam tra la popolazione nera dei "ghetti" d'America). Tali movimenti estremisti subirono una feroce repressione poliziesca e molti dei loro leader vennero incarcerati o costretti all'esilio, tuttavia gli Afro-americani ottennero ulteriori conquiste in campo legislativo e si avviarono alla piena integrazione nella società americana, sia pure con un processo graduale che in certo qual modo è in corso ancora oggi.
Un'immagine che ritrae il pugile Cassius Clay (1942, a destra) e l'attivista politico Malcolm Little (1925-1965, a sinistra), meglio noto con lo pseudonimo Malcolm X. Nel 1967 Clay si rifiutò di partire per il servizio militare e di prendere parte alla guerra del Viet Nam, fatto che gli costò la perdita del titolo mondiale dei pesi massimi ottenuto quello stesso anno. Si convertì alla fede islamica e assunse il nome di Muhammad Alì, destando con il suo esempio molte polemiche e diventando al tempo stesso un simbolo della lotta per l'identità degli Afro-americani. Malato di parkinson, è stato candidato al Nobel per la Pace nel 2007.
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7. Gli Afro-americani oggi
Nonostante le molte battaglie legali vinte e un progressivo miglioramento nelle loro condizioni di vita, i cittadini neri d'America non possono dirsi pienamente inseriti nella società del loro Paese o, quanto meno, la situazione presenta ancora molte differenze su scala geografica e sociale, cosicché allo stato attuale non si può parlare di un'integrazione pienamente realizzata. Ecco i dati demografici essenziali della popolazione afro-americana degli USA in base al censimento del 2010, da cui si evidenziano elementi contraddittori:
popolazione diplomati (%) laureati (%) reddito familiare annuo (U.S. $) famiglie con reddito annuo <15.000 $ (%) tasso di disoccupazione (%) |
Afro-americani
38.900.000 (12,6%) 35 12 38.400 18 16 |
Dato nazionale USA
308.745.000 31 18 60.000 8,7 9,6 |
Gli Afro-americani sono quasi 40 MLN di persone, da cui il censimento esclude i neri di origine ispanica e gli immigrati nordafricani (in totale sono circa 42 MLN di individui). Per quanto riguarda l'accesso all'istruzione, i diplomati in possesso di un high school degree (paragonabile al diploma di Scuola Superiore in Italia) non sono meno numerosi della media nazionale, mentre i laureati (con bachelor's degree) sono molti di meno, 12% contro il 18% nazionale. Più numerose le famiglie con reddito inferiore a 15.000 dollari annui (il 18%, quasi una su cinque contro l'8,7% di tutti gli USA) e anche il reddito medio familiare è decisamente più basso fra i neri (meno di 40.000 dollari l'anno) rispetto alla media USA (60.000 dollari l'anno), mentre il tasso di disoccupazione è quasi doppio fra gli Afro-americani rispetto al resto della nazione. Se ne deduce che la popolazione dei neri americani non ha ancora raggiunto la piena equiparazione socio-economica col resto del Paese e se sono ormai numerosi gli Afro-americani che proseguono negli studi e raggiungono posizioni ragguardevoli nel mondo professionale ed economico, è pur vero che tra essi vi sono estese sacche di povertà ed emarginazione e ciò si verifica soprattutto nelle periferie delle grandi città industriali del Nord e del Mid-West. Un ultimo dato induce a riflettere, ovvero la percentuale dei neri nella popolazione carceraria attualmente presente negli USA: secondo i rilevamenti dello U.S. Bureau of Justice nel 2011 essa ammontava al 38%, il che significa che più di un detenuto su tre negli Stati Uniti è afro-americano (si tenga presente che questi cittadini rappresentano appena il 12,6% della popolazione totale). Ciò può far pensare che gli Afro-americani siano più esposti al rischio di delinquere a causa della povertà e della mancanza di lavoro, ma forse il dato si spiega anche con gli squilibri presenti nel sistema giudiziario degli USA, in cui gli imputati privi di mezzi economici non possono permettersi una difesa efficace in tribunale (la cosa riguarda altre minoranze etniche, a cominciare dagli Ispanici).
Barack Hussein Obama, il primo presidente USA di origini afro-americane. Nato alle Hawaii da padre keniota e da madre americana, ha militato nel Partito Democratico ed è diventato senatore dell'Illinois nel 2004, impegnandosi in iniziative legislative a favore delle classi disagiate e delle minoranze. Nel 2007 ha iniziato la corsa alla Casa Bianca e ha vinto le elezioni del nov. 2008 contro il repubblicano John McCain, diventando il 44° presidente degli Stati Uniti. Ripresentatosi nel 2012, è stato nuovamente rieletto a un secondo mandato, battendo il suo avversario Mitt Romney. Nel 2009 gli è stato conferito il Premio Nobel per la Pace, a seguito della sua incessante attività a favore della diplomazia internazionale e del dialogo fra i popoli. L'elezione alla presidenza di Barack Obama ha rappresentato una tappa fondamentale nel processo di integrazione dei cittadini neri d'America, anche se fra le minoranze etniche del Paese molti problemi restano insoluti e permangono gravi fattori di disagio e disuguaglianza, verso i quali lo stesso Obama tenta di sensibilizzare l'opinione pubblica americana. |
8. Lo schiavismo nel mondo attuale
La schiavitù non è purtroppo un triste retaggio del passato ed è ancora presente in molte zone del mondo attuale, come denunciano agenzie governative e associazioni umanitarie: ne esistono varie forme, che includono lo sfruttamento sessuale di donne e minori, la schiavitù per debiti, l'obbligo di contadini e braccianti di restare legati al lavoro della terra, fino al vero e proprio traffico di esseri umani destinati a diversi tipi di lavoro forzato. Secondo alcuni analisti, inoltre, anche le condizioni di lavoro cui sono costrette molte persone nei Paesi delle cosiddette "economie ermergenti" (Cina, Corea del Sud...) si possono configurare come forme di sfruttamento al limite della manodopera schiavile, per gli orari di lavoro estenuanti, la bassa retribuzione e la pressoché totale assenza di diritti. La schiavitù è aspramente condannata dalle leggi di un gran numero di Paesi, inclusi molti PVS, e da pronunciamenti a livello internazionale, come l'art. 4 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (adottata dall'ONU nel 1948) che afferma: «Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma». Esiste inoltre la Convenzione per l'abolizione del lavoro forzato del 1957 e la Dichiarazione di Stoccolma del 1996 contro il commercio sessuale, mentre il Codice Penale dello Stato italiano configura il reato di "riduzione in schiavitù" all'art. 600, che prevede una pena che può arrivare fino a vent'anni di reclusione. Nonostante l'unanime condanna a livello internazionale, tuttavia, la schiavitù persiste in molti Paesi del mondo e il fenomeno è stato di recente denunciato dall'UNODC (Ufficio dell'ONU contro la Droga e il Crimine) con un rapporto del 2012 sulla "tratta delle bianche" che afferma, tra l'altro, la necessità di combattere il problema a livello globale e di aumentare la consapevolezza nell'opinione pubblica, troppo spesso portata a minimizzare le proporzioni del fenomeno. Esistono inoltre due distinti Protocolli dell'ONU contro il traffico di esseri umani, adottati nella conferenza di Palermo del dic. 2000 ed entrati in vigore in tutto il mondo nel 2003-2004, fatto che costituisce un passo decisivo nella lotta a livello internazionale contro ogni forma di sfruttamento schiavile.
Il manifesto ufficiale della Conferenza dell'ONU contro le forme transnazionali di criminalità organizzata, tenutasi a Palermo nel dic. 2000. Nell'ambito di tale conferenza sono stati adottati due distinti Protocolli, il primo contro il traffico di esseri umani (specialmente donne e bambini) e il secondo contro ogni forma di contrabbando di migranti e clandestini, entrambi approvati dalla risoluzione 55/25 dell'Assemblea Generale dell'ONU ed entrati in vigore rispettivamente il 25 dic. 2003 e il 28 genn. 2004. In base a tali Protocolli, gli Stati membri sono tenuti a recepirne gli intendimenti nella loro legislazione penale e ad attuare tutte le forme per la prevenzione e la repressione di ogni forma di sfruttamento e traffico di esseri umani che possa configurare la riduzione in schiavitù. Sono inoltre previste tutele speciali e assistenza nei confronti delle vittime di questi traffici, inclusa la possibilità che esse ricevano lo status di rifugiati (in modo temporaneo o definitivo) nei Paesi dove hanno subìto lo sfruttamento. |
Amnesty International, l'associazione umanitaria che si batte contro le violazioni dei diritti umani in tutto il mondo, denuncia il persistere di condizioni di schiavitù in vari Paesi (incluse nazioni dell'Occidente) e sottolinea il fatto che accanto a vecchie forme di schiavismo ne siano nate altre nuove, difficili da estirpare proprio perché quasi sconosciute all'opinione pubblica del mondo cosiddetto "civilizzato". Secondo Amnesty, sarebbero queste le principali forme di sfruttamento schiavile attualmente presenti in varie aree del pianeta, alcune su scala locale-regionale e altre diffuse a livello internazionale:
- Schiavitù per debiti - Molto diffusa in Africa sub-sahariana, nei Caraibi e nel Sud-Est asiatico, coinvolge contadini in aree rurali che ricevono prestiti onerosi da proprietari terrieri e poi sono costretti a lavorare gratuitamente per ripagare le somme ricevute. Talvolta l'obbligo viene ereditato di padre in figlio e tale consuetudine è radicata nella cultura tradizionale di molti Paesi. Si calcola che attualmente siano 20 MLN le persone colpite da questo tipo di sfruttamento.
- Servitù della gleba - Assai simile nella forma all'istituto giuridico medievale, consiste nell'obbligo per alcuni braccianti agricoli di lavorare gratuitamente nelle terre di ricchi latifondisti e proprietari terrieri, a volte ricevendo come pagamento dei buoni da spendere in spacci di proprietà degli stessi padroni della terra.
- Lavoro coatto - Pratica che consiste nel prelevamento di persone svantaggiate (donne, minori, rifugiati, membri di minoranze etniche...) da parte di governi o organizzazioni politico-militari, per costringerle a lavorare sotto minaccia di morte o altre punizioni. In alcuni Paesi in cui è presente un conflitto armato, molti lavoratori sono costretti a collaborare gratuitamente a "progetti di sviluppo" (come costruzione di strade, ponti, infrastrutture militari...) o a trasportare forniture belliche, talvolta venendo prelevati dai loro villaggi come forma di tassazione. Si sono verificati casi in cui bambini e ragazzi sono stati usati dagli eserciti come "detector umani" per individuare mine, morendo a causa delle esplosioni o venendo uccisi subito dopo l'incarico (tale pratica fa parte del più ampio problema dei "bambini-soldato", molto diffuso soprattutto in Africa).
- Traffico di esseri umani - È la forma più diffusa di sfruttamento, poiché secondo stime dell'ONU ogni anno circa 4 MLN di persone vengono trasportate e vendute con la forza o l'inganno in altri Paesi per essere destinate a varie forme di lavoro forzato, che vanno dal lavoro domestico, all'accattonaggio per strada, alla prostituzione. Le vittime sono prevalentemente bambini e donne, mentre una delle aree più colpite è l'Africa Occidentale (Togo, Benin, Camerun), dove le ragazze e i piccoli schiavi vengono letteralmente deportati nelle zone più ricche della Nigeria e del Gabon e destinati al lavoro domestico o allo sfruttamento sessuale, la forma più odiosa di riduzione in schiavitù. Molti bambini, inoltre, sono costretti a lavorare in stabilimenti tessili per grandi multinazionali, in condizioni precarie e con paghe misere, sfruttati per la loro situazione di povertà e per la particolare abilità che dimostrano nel maneggiare i telai meccanici con le loro piccole mani (come detto, anche il lavoro mal pagato e senza diritti può essere considerato una forma di schiavismo).
Il manifesto ufficiale della Giornata Mondiale contro il Lavoro Minorile, organizzata il 12 giugno 2012 dall'ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro) per sensibilizzare l'opinione pubblica mondiale contro questo grave problema. Secondo il rapporto 2010 di questa agenzia dell'ONU, sono attualmente circa 200 MLN i bambini in tutto il mondo che subiscono una qualche forma di sfruttamento e di questi ben 115 MLN sono impiegati in lavori pericolosi, come quelli che lavorano nelle miniere in Cambogia, nelle piantagioni di tè nello Zimbabwe o che fabbricano bracciali di vetro in India. I bambini vengono sfruttati perché possono essere sottopagati, hanno scarsa forza "contrattuale" e spesso devono aiutare le loro famiglie indebitate o in situazioni di povertà. Sono spesso impiegati negli stabilimenti tessili perché le loro piccole mani li rendono adatti a maneggiare telai meccanici, ma sono anche più soggetti degli adulti al rischio di infortuni o menomazioni permanenti, per non parlare dell'esposizione a sostanze nocive o tossiche. Secondo stime attendibili, in Italia sarebbero circa 150.000 i minori che lavorano, di cui almeno 30.000 impiegati in attività pericolose e che impediscono loro la normale frequenza scolastica. |